Intervista al Dott. Baudi pubblicata su Tabloid Ortopedia
Tre italiani su dieci subiscono, almeno una volta nella vita, una lesione alla cuffia dei rotatori. Questo tipo di patologia rappresenta uno dei primi motivi per i quali vengono richieste le visite ortopediche.
La Struttura complessa di ortopedia e traumatologia del Policlinico di Modena, diretta dal professor Fabio Catani, è stata individuata come centro di riferimento regionale dell'Emilia-Romagna per la cura delle patologie dolorose della spalla e si aggiunge agli altri due hub regionali: l'Istituto Ortopedico Rizzoli di Bologna (reparto di chirurgia di spalla diretto da Roberto Rotini) e l’Ospedale di Cattolica (con il reparto diretto da Giuseppe Porcellini).
Storicamente Modena è sempre stata importante in questo settore: «è qui che è stata fondata la chirurgia della spalla da Luigi Celli, ed è qui che ho iniziato il mio percorso formativo» ricorda Paolo Baudi, responsabile dell'attività chirurgica e dell'ambulatorio di chirurgia di spalla presso il Policlinico di Modena, dove con Gabriele Campochiaro e a Giovanni Leo si eseguono circa 350 interventi l'anno e si seguono ambulatorialmente 1.200 pazienti.
Baudi, dopo 15 anni di attività di chirurgia di spalla nel Dipartimento di ortopedia dell’azienda Usl di Modena, diretto da Eugenio Rossi Urtoler, si è unito al team di Fabio Catani al Policlinico di Modena, dove è stato centralizzato il trattamento della patologia di spalla. «Questo comporta che, oltre a un gran numero di interventi “di routine”, anche interventi di trasposizioni muscolari, protesi di spalla e tutta una serie di interventi più complessi quali esiti fratturativi o fallimenti di precedenti interventi, vengono effettuati nel nostro centro» ci ha detto Paolo Baudi.
Dottor Baudi, in che modo fattori biologici e stili di vita possono influire nella patogenesi della lesione di cuffia dei rotatori?
Stanno assumendo un peso sempre maggiore. Si è visto che il cedimento della cuffia dei rotatori è un evento quasi parallelo al progredire dell’età per cui, nella popolazione tra i 60 e i 65 anni, osserviamo un 30% di lesioni più o meno sintomatiche. Al di là dei fattori patogenetici comunemente noti – microtraumi ripetuti, lavori pesanti o usuranti, traumi sportivi o lavorativi – sono stati identificati fattori di natura biologica e ovviamente stili di vita o particolari assunzioni farmacologiche.
Questo spiega come si possono vedere ancora contadini di 80 anni con la cuffia integra e impiegati di 40 con lesione alla cuffia a entrambe le spalle.
Tra gli stili di vita, sicuramente il fumo è quello che ha dimostrato l’interazione più evidente con il cedimento della cuffia e anche con il fallimento degli interventi di riparazione, per cui le linee guida addirittura ne consigliano la sospensione sei settimane prima e sei settimane dopo l’intervento. Tra i fattori biologici, ci sono poi tutti quelli legati alla "diabesità", quindi obesità, indice di massa corporea, intolleranza glicemica e tutte quelle malattie che possono andare a compromettere il microcircolo di questa inserzione tendinea, che è molto delicata: ipertensione, ipercolesterolemia e patologie della tiroide, oltre ovviamente alle malattie reumatiche e all’assunzione prolungata di cortisonici. Quindi i fattori di rischio identificati sono in aumento ma in parte prevenibili. Se si adottano stili di vita che tendono a ridurre il colesterolo, che controllano il diabete e l’indice di massa corporea e si riduce il fumo, si fa già un’ottima azione di prevenzione.
Sempre più spesso, però, bisogna ricorrere alla chirurgia. Come è cambiata negli ultimi anni?
Fino a 15 anni fa si operava solo a cielo aperto: si apriva la spalla staccando il deltoide e si limava la superficie inferiore dell’acromion. Si riteneva che questo osso, questo “soffitto” sotto il quale lavora la cuffia dei rotatori, fosse la principale causa di usura e cedimento: era l’intervento di acromionplastica. Dopodiché si procedeva, quando possibile, alla riparazione della cuffia dei rotatori.
Ovviamente questo comportava talora risultati in parte deludenti perché si doveva aprire la spalla per vedere se la cuffia era ricostruibile e non si poteva far nulla sulle patologie articolari.
Poi è arrivata l’artroscopia che ha consentito prima di osservare l’interno dell’articolazione trattando le patologie associate, di valutare la riparabilità della lesione e di eseguirla senza associare necessariamente l’acromionplastica e il distacco parziale del deltoide.
Quali sono le principali tecniche artroscopiche?
L’uso dell’artroscopia ha imposto di modificare in parte la tecnica di riparazione, che era la cosiddetta riparazione transossea. A cielo aperto, si facevano dei tunnel nell’osso del trochite, la grande tuberosità dell’omero, dove si inseriva il tendine, mentre con l’artroscopia si è passati al sistema con le ancore. Si tratta di ancorine che vengono avvitate all’interno del trochite e che hanno pre-caricati dei fili che servono a suturare la cuffia.
Che sistema utilizzate nel vostro centro?
Le novità che abbiamo introdotto in questi ultimi anni sono essenzialmente due: un sistema di sutura artroscopica transossea, con una elevatissima tenuta biomeccanica, e le cosidette soft-anchor, cioè ancorine totalmente in tessuto ad alta resistenza. Entrambe queste soluzioni sono state studiate per dare elevata stabilità meccanica nel pieno rispetto della biologia.
Nella nostra clinica abbiamo avviato due studi prospettici randomizzati, con cui cercheremo di dimostrare la validità clinica e biologica dei nuovi sistemi di sutura artroscopica della cuffia. Abbiamo già dei follow-up retrospettivi a due anni su un centinaio di interventi che dimostrano sia i miglioramenti clinici, sia minori percentuali di recidiva.
Cosa determina la scelta tra le diverse tecniche disponibili?
Al giorno d’oggi i principali centri di chirurgia di spalla fanno il 90-95% di interventi in artroscopia e gli interventi a cielo aperto vengono riservati a casi come la lesione completa del sottoscapolare o i transfer muscolari.
Disponendo sia del sistema con le ancore tradizionali in metallo sia delle ancore in tessuto che del transosseo artroscopico, possiamo scegliere a seconda del profilo biologico del paziente, del tipo di lesione, del tipo di osso o del fatto che si tratti di una recidiva.
Quale aiuto forniscono le terapie biologiche nella chirurgia di spalla?
Al momento non ci sono evidenze scientifiche assolute sull’utilizzo di gel piastrinici (Prp) e cellule staminali. Sono stati condotti studi prospettici randomizzati di livello 1, la maggiore evidenza scientifica, ma il risultato è che non ci sono rilevanti vantaggi in termini clinici e nelle percentuali di ri-rottura, per cui siamo ancora molto lontani dal poter affermare che con l’utilizzo di un adiuvante biologico durante la riparazione si possa ottenere un miglior risultato clinico. Lo stesso vale per l’uso ambulatoriale delle infiltrazioni di Prp nella cura delle tendinopatie o delle lesioni parziali.
Esistono invece terapie farmacologiche che possono aiutare?
Si sta lavorando molto sugli integratori. Se il tendine è particolarmente debole si ammala e si cerca di curarlo con integratori che ne aumentino la vascolarizzazione, che lo riforniscano di collagene e che riducano le metalloproteinasi che favoriscono il cedimento tissutale. Noi li utilizziamo sia nel momento della malattia che precede l’eventuale rottura sia dopo l’intervento di riparazione.
Nel trattamento farmacologico della spalla operata abbiamo poi un altro problema: anche se l’intervento è eseguito in artroscopia, il post-operatorio è molto doloroso e tra i farmaci che non possiamo usare ci sono tutti i Fans e tutti gli anti Cox-2 perché vanno a ridurre ulteriormente microcircolo e capacità di cicatrizzazione.
La gestione del dolore dopo intervento alla spalla è uno degli aspetti più complicati, in quanto può influenzare pesantemente tutta la fase riabilitativa, che dura dai tre ai quattro mesi prima del reintegro lavorativo o sportivo. Ecco perché ci si rivolge sempre più a oppiacei di ultima generazione nella gestione del post-operatorio.